Luigi Meneghello

Nato nel 1922 a Malo, centro della provincia vicentina, Luigi Meneghello - dopo una brillante carriera di studente, il servizio militare come ufficiale degli Alpini e le esperienze della lotta partigiana - ha vissuto prevalentemente in Inghilterra dal 1947 al 1980, ritornando poi sempre più spesso nella sua terra, a Thiene. Oltre trent’anni nei quali Meneghello ha insegnato lingua e letteratura italiana all’Università di Reading, nella valle del Tamigi, fondandovi il Dipartimento di Studi Italiani, e ha pensato e pubblicato gran parte dei suoi volumi, sia di saggistica sia di narrativa.

Dati alle stampe dopo una lunga, quasi ventennale gestazione, e rielaborati anche in seguito, i due testi forse più famosi - "Libera nos a malo" (1963) e "I piccoli maestri" (1964) - contengono già il nucleo del mondo poetico di Meneghello, che sarà poi approfondito e ampliato nei temi da altre esplorazioni della memoria come "Pomo pero" (1974), "Fiori italiani" (1976), "Bau-sète" (1988) e "Il dispatrio" (1993); indagato linguisticamente in puntigliosi e dotti studi sulle tradizioni dialettali come "Maredè, maredè…" (1990), nelle tante "conversazioni scritte" e nei materiali manoscritti pubblicati di recente da Rizzoli ne "Le carte".

A questo proposito Meneghello stesso ha raccontato - in una conversazione pubblicata da Moretti Vitali in "Che fate, quel giovane?" (1990) - come un po’ alla volta abbia "smesso di corteggiare senza vera fortuna la filosofia", proponendosi invece di scrivere su alcune tematiche che davvero lo interessavano, "la cultura e la vita paesana, la guerra civile, i traumi dell’educazione di un italiano, la strana stagione del dopoguerra", e come il lavoro letterario che - con un po’ di civetteria - definiva "del prosatore" rispondesse con forza insperata alla sua "ispirazione giovanile a capire qualcosa del mondo!".

E così "Libera nos a malo" - già nel titolo un fulminante gioco di parole accosta il nome della cittadina natale alla sua cultura, così pervasa di cattolicesimo postridentino - è la lieve, umorosa e quasi affettuosa rivisitazione "dall’interno" di un piccolo mondo perduto, la Malo degli anni ’30, ricreato nella sua magica sospensione tra fascismo e civiltà contadina, tradizioni protratte da tempi immemorabili e la sorda eco dei cambiamenti alle porte, inquietudini dell’intelletto e della carne, e raccontato con lo sguardo curioso e onnivoro di chi, allora bambino, registrava indelebili ricordi e chiacchiere malevole, spauracchi e desideri inconfessati, vizi privati e pubbliche virtù di un’intera piccola comunità.

La "prima persona" di Meneghello si ritrova più tardi nelle vicende de "I piccoli maestri", epopea programmaticamente antiretorica di un gruppo di giovani intellettuali che - sorpresi in qualche parte d’Italia dall’armistizio del ’43 mentre studiavano o militavano nell’esercito regolare - scelsero la guerra partigiana e la vissero come un’avventura a occhi aperti, costretti a diventare, da diligenti allievi di altri docenti, responsabili in proprio di scelte drammatiche nelle quali erano in gioco le loro vite, quelle dei loro compagni e dei loro avversari: "piccoli maestri" appunto, che avrebbero sperimentato di persona, sulle montagne poco lontano da casa, tutta la distanza fra la nitida sicurezza delle idee e la "zona grigia" fatta di compromessi, talvolta anche di violenza e di sangue, dell’azione.

"Giustificarsi la natura delle cose, se c’è", attingere a una "genuinità" dell’esperienza e del vissuto in contrapposizione a ciò che è "spurio" e artefatto, ovviamente curando di "restare fuori dalla moda, che poi in pratica vuol dire scrivere contro le mode": ecco per Meneghello il senso della scrittura, la motivazione della fatica di scrivere. Sarebbe stato lo stesso esercizio della scrittura a suggerirgli - come ha scritto Domenico Porzio nell’introduzione all’edizione Oscar Mondadori di "Libera nos a malo" - che "la natura delle cose sta nelle parole che le nominano". Ecco così che alla mescolanza talvolta ardua e sorprendente - l’elemento che più colpisce chi legge "Libera nos a malo" - di italiano (la lingua scritta e codificata), dialetto alto-vicentino (la lingua nativa, solo parlata) e perfino inglese (la lingua appresa), si affiancano ne "I piccoli maestri" un meno vistoso "plurilinguismo" dato da un italiano capace di attingere tutti i livelli colloquiali e testuali possibili, e poi ancora altri e più distaccati registri, l’umorismo sorridente che prevale in "Pomo pero" o l’ironia folgorante di "Bau-sète". Se diversi sono gli ambienti e le atmosfere, inalterata rimane però la convinzione che "per capire le cose bisogna aspettare le parole che le spiegano".

Esplorato con la speciale autorità che deriva all’Autore dall’esperienza diretta, il mondo poetico di Meneghello aggiunge uno dopo l’altro inediti tasselli biografici (l’avventura di una mente vorace che si apre ai saperi in "Fiori italiani", quella di un’anima che si anglicizza ne "Il dispatrio"…) ma rivela la sua verità narrativa nella misura in cui riesce non soltanto - attraverso i percorsi della filologia e le imprevedibili combinazioni della memoria - ad aderire all’autenticità della lingua nativa e di quelle acquisite, ma anche a "trasportarle" in una trama linguistica, a rivisitarle come lingua letteraria. Ecco i mezzi con i quali a Meneghello riesce di far rivivere, tra gli altri mondi, quella fantastica Malo della memoria - il paese "dove si parla una lingua che non si scrive" - e a renderla intelligibile e godibile anche a chi non è vicentino e neppure veneto.

Al bisogno di far rivivere, anzi di "far splendere" una "grammatica sgrammaticata" ma profonda - cioè tutto quanto è racchiuso nel cuore dell’esperienza popolare in termini di creatività, di suggestione, di "follia" - si riferiva Meneghello in un intervento pronunciato proprio a Bergamo una ventina d’anni fa e pubblicato nel volumetto "Il tremaio" edito da Lubrina nel 1986.

Per Luigi Meneghello, e per Bergamo che lo ospita, il conferimento de "Il Calepino" rappresenta quindi, tra le altre cose, anche un significativo ritorno, che avviene proprio nell’anno in cui "Libera nos a malo" compie quarant’anni. In onore del suo Autore, il Comune di Malo ha stampato e distribuito un’edizione speciale del libro, promosso da maggio a settembre una rassegna di pubbliche letture tenute da noti attori e ospitato, all’inizio di settembre, un convegno scientifico internazionale.

Con il premio che gli verrà assegnato il prossimo 11 ottobre, anche Bergamo intende celebrare a suo modo Luigi Meneghello e il suo universo letterario, facendo proprio lo spirito del famoso dizionario latino compilato alla fine del ’400 da Ambrogio da Calepio e conosciuto come "Calepino": un’opera che, nata tra le mura del convento bergamasco di Sant’Agostino, ha saputo essere per almeno tre secoli strumento fondamentale per la trasmissione del sapere e lo scambio tra le diverse culture.

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